Psichiatra, psicoterapeuta, Mediatore familiare Direttore ITFV Didatta ITFF di Firenze e del Veneto Consulente per il Tribunale Tesoriere e membro Comitato Direttivo A.I.M.S.aldo.mattucci@ tiscali.it
Il mio personale interesse per la Mediazione familiare nasce a seguito dell’attività clinicacon coppie e famiglie che svolgo abitualmente all’interno dell’IstitutoVeneto di Terapia Familiare (ITFV) e grazie al lavoro di ricerca e di riflessionecon i colleghi dello stesso Istituto e con quelli degli altri numerosi Centricon i quali, dal 1995, condivido l’appartenenza all’AssociazioneInternazionale Mediatori Sistemici (A.I.M.S). Potrei affermare che il primo approccioalla mediazione è stato frutto di una necessità operativa, ovverola conseguenza della ricerca di una modalità di intervento più idoneaa fornire una adeguata risposta sia all’impennata di richieste di aiutopervenute da parte di coppie in crisi o in via di separazione, sia all’incrementoconsiderevole di domande di sostegno a bambini e, soprattutto, adolescenti chestanno vivendo gli effetti negativi di una gestione conflittuale della separazionetra i genitori. L’avvicinamento alla mediazione familiare è scaturito quindi daun’esperienza clinica che si dimostrava poco idonea, anzi a volte improduttiva,nell’affrontare la sofferenza prima di tutto legata alla separazione esuccessivamente alla difficoltà, dopo l’avvenuta rottura coniugale,di “mettere in atto forme di collaborazione con l’ex coniuge pergarantire l’esercizio della funzione genitoriale” (Scabini, Cigoli2000, 213) nell’interesse dei figli. Tra l’altro la conferma che le questioni connesse alla separazione e aldivorzio stessero assumendo rilevanza sempre più marcata nella praticaquotidiana di numerose figure professionali è venuta dalla crescente richiestadi formazione da parte degli operatori dei servizi socio-sanitari, dei legali,dei giudici e anche da parte di psicoterapeuti privati, tutti alle prese conla specificità delle dinamiche che caratterizzano le varie fasi del processodi separazione. La mediazione familiare è uno degli interventi possibili, ma è indubbiamentequello più indicato nei contesti di elevata conflittualità, durantel’articolato e complesso processo della separazione coniugale, che va acollocarsi in un nuovo campo d’intervento quale è quello psico-giuridico.Il mediatore si va a situare così in una “delicata area intermediatra contesto giuridico-legale e contesto psicoterapeutico” (Aurilio, 1998,73). Quest’area potrebbe essere ridefinita come una modalità con cui “ilcorpo sociale” offre un aiuto alle famiglie “nel superamento dellatransizione” (Scabini, Cigoli, 2000, 204), ovvero nell’affrontare “lafine del patto (coniugale) sapendo portare in salvo il legame medesimo” (Scabini,Cigoli, op. cit., 203), condizione indispensabile per tutelare il passaggio generazionaleattraverso la cura congiunta dei figli. L’aiuto alla famiglia “può avvenire mediante forme di dono-sostegnoche vanno dalla mediazione familiare all’attuazione di gruppi di mutuoaiuto, fino alla consulenza clinica e alla psicoterapia, e forme di protezionedel danno, quali la consulenza tecnica rivolta al tribunale e gli spazi neutrid’incontro. Queste ultime forme sono attivate quando manca uno spazio didialogo costruttivo familiare” (Scabini, Cigoli, op. cit., 204). Nel lorocomplesso, tutte queste modalità di aiuto vanno a circoscrivere un campodi intervento chiamato psicogiuridico, che richiede conoscenze e percorsi formativispecifici. Non è difatti possibile, come accadeva in passato, operarein detta area pensando semplicemente di trasferirvi le conoscenze acquisite inaltri campi, quale quello psicoterapico o legale o psichiatrico o psicologico,nonostante permangano tracce di tale mentalità anche nel presente. Insintesi, non è più possibile improvvisarsi esperto nel campo dellaseparazione e del divorzio.
Definizione: cos’è la mediazione familiare?
In una recente riunione del Forum Europeo della mediazione familiare vi è stato un confronto tra le differenti definizioni che alcuni Centri italiani ed europei utilizzano per definire la mediazione familiare, con lo scopo da un lato di sottolineare e ordinare gli elementi comuni, e dall’altro di realizzare un confronto sulle eventuali differenze. Ebbene, è emerso che le posizioni dei Centri, che da anni operano nel campo e che in passato si erano contraddistinti per contrapposizioni a volte anche serrate, appaiono molto più vicine che in passato, mentre le differenze sembrano più legate a diversi ambiti di ricerca, piuttosto che a rigide posizioni “di parrocchia”.
Per brevità, farò riferimento alla definizione di mediazione contenuta nel regolamento dell'AIMS:
· è un percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo laseparazione o il divorzio;
· ha come obiettivo quello di offrire agli ex-coniugi un conteso strutturatoe protetto dove raggiungere accordi concreti e duraturi su alcune decisioni,come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di visitadel genitore non affidatario, la gestione del tempo libero, la divisione deibeni;
· il percorso è guidato da un professionista che, come terzo imparzialee con una formazione specifica, aiuta i due genitori ad elaborare gli accordi;
· si colloca al di fuori del contesto giudiziario ed avviene nella garanziadel segreto professionale;
· l’intervento viene effettuato con entrambi i partner e, quandoil mediatore lo ritenga necessario, anche con i figli, riconoscendo il ruoloattivo che essi svolgono all’interno della dinamica familiare;
· si articola in un numero limitato di incontri, in media 10-12, compresigli eventuali incontri di follow-up, della durata di 90-120 minuti l’uno.
“Il modello sistemico, tenendo conto dell’intero sistema familiare,propone una lettura complessa della dinamica relazionale che ruota intorno alconflitto e adotta un approccio interdisciplinare sollecitando il dialogo e lasinergia operativa tra figure professionali di ambito diverso, psicologico, giuridicoe sociale” (regolamento AIMS).
La mediazione familiare sistemica parte da alcuni principi di base così riassumibili:
· “consapevolezza dell’inevitabilità del conflittonelle relazioni umane e la conseguente necessità di valorizzarne gli aspetticostruttivi ed evolutivi, al fine di favorire la crescita armonica dei sistemie dei loro singoli membri;
· importanza di ampliare il campo di osservazione a tutti i sistemi coinvoltinella dinamica del conflitto;
· esigenza di circoscrivere gli obiettivi della mediazione al raggiungimentodegli accordi, rispettando la complessità degli eventi storici e degliintrecci relazionali” (Busso, 2001b, 26).
Per meglio comprendere i punti sinteticamente appena esposti, occorre prendere in esame e sviluppare alcune tra le tante tematiche che l’argomento sollecita, quali ad esempio: la costruzione della coppia, il conflitto, la tutela della genitorialità, la separazione, la mediabilità del conflitto,le tecniche di intervento.
La costruzione della coppia
Numerosi sono gli studi che si occupano della relazione individuo-coppia e che studiano le diverse modalità che portano due individui di sesso opposto ad incontrarsi per dare vita ad una coppia. Tra i tanti, mi sembra significativo partire da un contributo di Paolo Menghi al Congresso “La Coppia in crisi” (1988).
L’autore parte dall’impossibilità a rispondere alla domanda che tanti si pongono circa la normalità o meno della propria scelta di coppia e propone pertanto di fare riferimento, per meglio comprendere cosa spinge due individui ad incontrarsi e a funzionare poi più o meno adeguatamente, “alla continuità di un processo, dove una maniera di relazionare può in un caso rappresentare una dimensione da acquisire, in un altro una dimensione da lasciare” (Menghi,1988, 47). Come dire che ogni situazione va valutata sia per gli aspetti di originalità che manifesta, sia per gli elementi di discontinuità che presenta rispetto al processo evolutivo in atto in ogni individuo.
“Può essere più sensato chiedersi se la relazione di coppiain cui viviamo sia di qualche utilità nel favorire il nostro sviluppopsichico, e se le modalità con cui questa relazione si esplica avvengononell’interesse della nostra evoluzione” (Menghi, op. cit.,47): l’ideada cui parte l’autore è che “la relazione di coppia può rappresentareun’opportunità incredibile di evoluzione individuale” (pag.48) nel caso in cui abbia una durata significativa.
Quando una coppia in crisi si rivolge ad un professionista per chiedere un aiuto a risolvere le proprie difficoltà, i primi sentimenti che racconta sono in genere la delusione, la rabbia, l’impotenza di fronte al conflitto, la preoccupazione per il futuro. E ancor, prima di parlare, nel volto di entrambi i partner si leggono tristezza, tensione, insicurezza e quasi costantemente sofferenza profonda, anche se a volte, in uno dei due coniugi, mascherate da una finta immagine di tranquillità e di forza. Non appena viene loro chiesto, nella fase di analisi della domanda, di ricordare il momento del loro primo incontro, di colpo, d’incanto sorrisi e sguardi profondi di complicità prendono il posto della tristezza e della tensione. Ricordare l’inizio della propria storia d’amore, anche se in un momento francamente doloroso, fa rivivere quasi magicamente i sogni, le attese, le speranze, i timori, i desideri legati a quegli istanti magici.
Ma cos’è che quella coppia inconsapevolmente stava allora mettendo in gioco? Cosa si celava al di là dell’attrazione fisica, della simpatia reciproca, della sensazione di benessere reciprocamente sperimentato?
Questa domanda trova in genere una risposta articolata e approfondita nel corso di un processo psicoterapico e certamente non di una mediazione. Ritengo però che qualsiasi professionista che si occupa di problemi di coppia debba essere in grado di costruirsi una prima ipotesi sul significato dell’incontro tra i partner, indipendentemente dal percorso che andrà a realizzare. Tale passaggio è indispensabile per comprendere come ogni individuo, quando incontra e sceglie l’altro come compagno di vita, inconsapevolmente stia investendo l’altro del desiderio di dare soluzione ai propri problemi irrisolti e quindi dell’esigenza di un cambiamento di sé.
Quando parliamo di problemi irrisolti, ci riferiamo anche alle questioni inerenti il passaggio generazionale, nel senso che ogni generazione fa dei tentativi per dare soluzione a condizioni disfunzionali quantomeno della generazione precedente. Tutti sappiamo quanto fisiologica sia, almeno fino al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, la posizione di chi spera di non assomigliare alla madre o al padre oppure spera di evitare di ripetere esperienze frustranti osservate nella relazione tra i genitori. Il desiderio di accrescere le proprie potenzialità e di migliorare la posizione raggiunta dalla generazione precedente è una molla indispensabile per l’evoluzione personale. Quando tale aspirazione però diventa l’obiettivo essenziale di tutta la propria vita, elevato è il rischio di riproporre, in parte o in toto, proprio quegli schemi e modelli che si sono percepiti come disfunzionali nelle dinamiche relazionali della generazione precedente.
Un punto da cui partire è che ogni coppia è composta da due persone che hanno alle loro spalle “due famiglie d’origine, ciascuna delle quali con una storia ed una cultura che avranno, inevitabilmente, un’influenza sulla nuova famiglia. Al momento dell’incontro ciascuno dei due partner porta, infatti, con sé tutto il bagaglio culturale della propria famiglia d’origine. Ama e condivide solo una parte di questa eredità familiare, ma è influenzato da tutto l’insieme di essa” (de Bernart 2001).
Nella fase di innamoramento entrambi i soggetti coinvolti spostano sull’altro sia il desiderio di trovare soluzione alle disfunzioni della precedente generazione, sia “le proprie idee, immagini e funzioni, che mal si integrerebbero con quanto ognuno ha preteso di conoscere di se stesso” (Menghi, op. cit., 49).
Potremmo dire che la coppia è in grado di utilizzare tali meccanismi proiettivi in modo positivo, riuscendo così a stare meglio, “quanto più riesce ad adattarsi alle esigenze connesse con il processo evolutivo dei due individui che la compongono; non solo adattarsi, ma favorirne lo sviluppo. Ciò avviene quando ciascuno è in grado di utilizzare a favore dell’evoluzione delle proprie potenzialità lo scambio con l’altro” (Menghi, op. cit., 49).
Diventa a questo punto fondamentale come si esce dalla fase di innamoramento: se ognuno è progressivamente in grado, attraverso una costante e graduale rielaborazione, di riappropriarsi dei propri obiettivi e di riconoscere ed accogliere quelle parti di sé che ha spostato sull’altro, ci sarà il passaggio alla cosiddetta fase della disillusione, nella quale l’altro può essere sì di aiuto, ma non potrà mai sostituirsi al partner nel perseguimento dei suoi traguardi. In assenza di un adeguato processo elaborativo, la coppia esce dall’innamoramento attraverso dei pesanti livelli di delusione, in quanto ognuno percepirà l’altro identico a com’era prima dell’incontro, con gli stessi problemi e le stesse difficoltà a guardarsi dentro. In realtà la vera delusione è verso se stesso, ma darà la responsabilità, o meglio la colpa, di questo mancato cambiamento all’altro perché non è stato in grado di rispondere alle attese e non ha mantenuto gli “impegni” a cui aveva invece mostrato di poter adempiere.
L’evoluzione della delusione così instauratasi può essere molteplice, ma molte volte produce un conflitto che la coppia stessa non è in grado di affrontare e di gestire. L’evoluzione dipende, tra le tante variabili, anche dalla fase del ciclo vitale in cui si trova la coppia; ad esempio, la presenza di figli piccoli spesso fa sì che la coppia opti per un congelamento del conflitto, con la messa in campo di consistenti meccanismi di evitamento, con l’idea di riprendere in mano la propria vita una volta che i figli abbiano raggiunto la maggiore età. Altre coppie, invece, preferiscono dare pieno sfogo alla delusione impegnandosi oltremodo nel conflitto stesso, fino a raggiungere livelli estremi di aggressività reciproca.
Per concludere la trattazione di questo tema potremmo dire che “la coppia ideale è quella all’interno della quale la crescita del singolo membro viene aiutata o addirittura potenziata, comunque non ostacolata dall’altro. Perché questo avvenga è necessario prima di tutto che ciascuno dei due membri desideri questa crescita, che comporta una separazione ed una differenziazione dalla famiglia d’origine e dalla sua cultura. E’ importante che ciascuno dei membri possa aiutare l’altro in questa crescita svolgendo per suo conto una funzione di critica costruttiva, ed è indispensabile che ciascuno dei due membri permetta all’altro di aiutarlo, e si fidi di lui “ (de Bernart, Buralli op. cit.), come dire che ciò che non funziona è la delega all’altro, ma ciò che è indispensabile è l’aiutoreciproco.
Il conflitto
Uno degli elementi che ha caratterizzato sin dai suoi prima passi l’A.I.M.S. è stato quello di “considerare il conflitto come un evento normale nella misura in cui, nel mondo delle relazioni umane, esistono inevitabilmente pluralità di punti di vista, pluralità di visioni del mondo perfettamente coerenti e logiche e al tempo stesso in contrapposizione con altre visioni del mondo altrettanto coerenti e logiche” (Busso, 2001a, 15).
Parlando di conflitto non si può evitare di fare riferimento al tema delle differenze. Ogni individuo, nella quotidianità, è continuamente messo alla prova nella sua capacità di riconoscere, accettare e tollerare tutto ciò che non ha caratteristiche assimilabili o sovrapponibili a quanto gli appartiene e gli è noto. Evidenziavo in un precedente lavoro (2002, in via di pubblicazione), che “la scommessa più rischiosa consiste nella capacità di riconoscere le differenze e di elaborarle, senza cadere nel rischio di trasformarle in diversità, ovvero in qualcosa che viene etichettato e che perde così la possibilità di essere rielaborato”. Il riconoscimento della nostra unicità e la possibilità di riconoscere l’unicità di cui sono portatori gli altri non solo rappresentano la modalità più ricca di apprendimento, ma anche promuovono la capacità di rispettare e accettare i confini che ci distinguono da tutto ciò che è altro da noi. Naturalmente, questo passaggio è realizzabile nella misura in cui l’individuo ha precedentemente imparato ad integrare dentro di sé le differenze di cui lui stesso è portatore.
Il conflitto nasce dalla gestione delle differenze. Pertanto, il conflitto è un elemento costitutivo della vita di ogni individuo. Ogni persona posta di fronte a delle scelte operative, ma soprattutto nel compiere i passaggi evolutivi, si trova ad affrontare l’ambivalenza tra ciò che desidera realizzare e ciò che teme di perdere attraverso il cambiamento. La consapevolezza del passaggio consente di operare la scelta più adeguata in quel preciso momento di vita, in rapporto alle risorse disponibili e nel rispetto del contesto relazionale in cui quel passaggio va ad inscriversi. In assenza di una capacità elaborativa le persone rimangono bloccate e non riescono ad operare alcuna scelta, paralizzate in una distruttiva indecisione sul da farsi.
E’ evidente come il processo evolutivo, con i suoi passaggi critici, non sia mai una questione solo individuale, ma risenta in modo decisivo del contesto ambientale, sociale e relazionale in cui si realizza. Come ricorda Moravia (1999), l’uomo “è un essere contestuale. È solo entro il sistema dei rapporti, dei condizionamenti, dei singoli stimoli visibili e invisibili in cui vive ch’egli va acquisendo gradualmente la sua fisionomia più caratteristica: la sua fisionomia di uomo-persona, di agente attivo e insieme passivo”. Lo stesso Moravia sottolinea “la centralità del contesto nell’esistenza che noi siamo, nella vicenda di conflitti e di mediazioni attraverso la quale si svolge la nostra vita”. L’autore, facendo riferimento alla prospettiva contestualistica, definisce il contesto come “il luogo in cui l’essere umano scopre le proprie capacità e i propri bisogni. È il luogo in cui queste capacità e bisogni assumono insieme il loro volto sociale e la loro identità personale. È il luogo in cui incontri e scontri intersoggettivi generano le differenze tra l’io, il tu e il lui. È il luogo in cui si produce quel gioco di passioni e di interesse contrastanti per il quale la vita è quello che è: un conflitto di ambizioni e di progetti, di obiettivi e di fini, di condotte e di ideali diversi“ (pag. 36).
Nella costruzione della relazione di coppia è fondamentale come ognuno dei partner si pone di fronte al conflitto, affinché le differenze di cultura e di modelli di provenienza, le divergenze di pensiero, di opinioni e di scelte pragmatiche divengano uno stimolo sia per la crescita individuale che per quella di coppia.
Confrontarsi con ciò che è differente da noi non è affatto semplice, tant’è che, ad esempio, molte coppie si costruiscono sulla base di una ricerca a volte assoluta di condivisione senza riserve della visione del mondo, degli hobbies, degli stili di vita, come se si volesse evitare la possibilità di confrontarsi con l’altro e quindi eliminare le occasioni di scontro.
In altre situazioni è questo stesso timore di scontrarsi che fa sì che le coppie, con il trascorrere del tempo, mettano in campo più o meno consapevolmente delle modalità di evitamento del conflitto che, pur partendo dalla speranza di salvare il rapporto da una possibile frattura, finiscono invece nella migliore delle ipotesi per posticipare l’inevitabile impatto con situazioni conflittuali o per costruire delle modalità di funzionamento di coppia a volte altamente disfunzionali.
L’evitamento del conflitto è definito dalla Scabini (1995), che riprende un lavoro di Raush e Barry (1974), “come una modalità di rapporto che tenta di eliminare il confronto mediante la negazione del problema attuata con una distorsione della situazione che annulla le differenze: in questo modo i due partner evitano un confronto diretto. Benché le tecniche di evitamento, se usate massicciamente, inibiscano la crescita e lo sviluppo della relazione, precludano la possibilità di apprendere e di differenziare alcuni aspetti dell’altro e così di modificare la propria relazione, non si può affermare in assoluto che esse provochino una situazione coniugale distruttiva e instabile. Povertà della comunicazione e incapacità di risolvere i problemi congiuntamente, spesso non precludono possibilità di relazioni soggettivamente soddisfacenti per i partner. Alcune coppie sembrano particolarmente abili nel mantenere modelli di evitamento, almeno nei primi anni di matrimonio, senza che insorgano per questo gravi problemi. Queste coppie, nella loro vita quotidiana, tendono ad evitare il coinvolgimento interpersonale” (pagg. 258-259).
Pertanto, l’evitamento del conflitto può non essere di per sé considerato come un elemento prognosticamente negativo, ma indubbiamente colloca la coppia in una posizione di grande staticità che, a mio parere, può essere conservata senza che si creino disagi significativi fintantoché non c’è l’arrivo del terzo. I figli, difatti, obbligano i due genitori a doversi confrontare con una terza entità che, anche quando è il frutto del proprio amore, ma sappiamo che non è sempre così, è comunque “altro” da loro. Abitualmente, se non è già avvenuto prima, è con l’adolescenza dei figli che i genitori saranno comunque chiamati a fare i conti con il conflitto, in questo caso generazionale, e saranno costretti ad affrontarlo nonostante per anni lo abbiano evitato. E’ superfluo aggiungere che il confronto con questa nuova esperienza, in questo caso, sarà ben più dura e più difficile da superare e da risolvere.
“A differenza dell’evitamento, l’impegno in un conflitto interpersonalepuò consentire una soluzione costruttiva e reciprocamente arricchente.Ciò si verifica se le coppie riescono a mettere in atto una buona varietà dirisposte in situazioni di conflitto (umorismo, spontaneità, ecc.), evitandol’espandersi del conflitto al di là del problema che l’hainnescato. In questo caso si capisce che ciò che conta veramente per lacoppia non è tanto la risoluzione, quanto il processo in se stesso” (Scabini,op. cit., 259). Naturalmente, l’impegno nel conflitto non è di persé la modalità di funzionamento più adeguata. Diventa, difatti, “unamodalità rigida di relazione quando il conflitto tende ad assorbire l’interaprospettiva temporale del rapporto, allargandosi fino a provocare attacchi sull’identità personalee toccando aree particolari di vulnerabilità (…) infatti l’espansionedel problema indica che è in gioco qualcosa di più: il conflitto,se non arginato, può prendere un corso distruttivo” (pag. 259).
In sintesi, l’obiettivo di ogni individuo rispetto al conflitto è innanzitutto quello di accettare e integrare le differenze che lo caratterizzano come persona, per poi accettare e integrare le differenze presenti nell’altro (partner, figli, familiari, amici, colleghi, conoscenti).
Quando le coppie si rivolgono ad un mediatore significa che il conflitto è divenuto insanabile, che il sistema delle relazioni più significative non riesce più a reggerne le conseguenze e che i personaggi coinvolti non riescono da soli a trovare soluzioni soddisfacenti e utili per tutti. Vedremo in seguito come, comunque, in questa fase ci si trovi di fronte ad un conflitto che mantiene delle potenzialità evolutive positive, “sfruttabili da chi abbia un minimo di capacità di cogliere ciò che accomuna gli opposti” (Busso, 2001a,15).
È proprio questo uno dei compiti del mediatore familiare: aiutare i duegenitori in conflitto a trovare soluzioni adeguate per sé e per i figli,senza rinunciare totalmente alla logica antagonista che ha caratterizzato laloro esistenza negli anni di convivenza. L’esperienza della mediazionediventa così esercizio su come, partendo dal conflitto e dalla separazioneconiugale, si possa acquisire una competenza relazionale che permetta di apprendereun nuovo modo di collaborare sul piano genitoriale.
Separazione coniugale: quando il conflitto è mediabile e quando no.
Generalmente si perviene alla decisione di rivolgersi ad un mediatore familiare a seguito dell’invio da parte di un legale, di un giudice attento e sensibile, di un terapeuta, di un amico, di un familiare o attraverso la conoscenza avvenuta tramite la diffusione di materiale pubblicitario.
Compito del mediatore è strutturare un’iniziale consultazione, che potrà coinvolgere i due genitori congiuntamente o, a volte, separatamente e che avrà l’obiettivo di acquisire informazioni circa l’incontro di coppia, la nascita dei figli, l’evoluzione della crisi coniugale fino alla decisione della rottura definitiva. Nello stesso incontro, o in uno successivo da tenere congiuntamente, il mediatore dovrà effettuare una corretta analisi della domanda e definire quindi il possibile contesto di intervento.
In questa fase di consultazione il professionista sarà inoltre chiamato a fare un’attenta valutazione ed analisi “della qualità del conflitto che vede coinvolti i due genitori nel contendersi i figli” (Mattucci, Pappalardo, 2001, 22). Gli autori prendono, infatti, in esame non tanto l’intensità e il grado raggiunto dal conflitto coniugale, bensì, attraverso lo studio della relazione di coppia antecedente la rottura, la qualità del conflitto, con l’obiettivo “di giungere ad una corretta definizione della possibilità di accedere o meno ad un processo di mediazione” (pag. 22).
Agli abituali criteri di non mediabilità (presenza di gravi problemi di natura psichiatrica, relazione di coppia francamente sbilanciata, manifestazioni di violenza verso i figli, ecc.) deve essere, a mio avviso, affiancata una corretta valutazione di come ognuno dei due genitori è in grado di sviluppare la relazione genitoriale. Ovviamente tale capacità è fortemente condizionata dal livello di elaborazione dell’avvenuta rottura coniugale.
Sono ormai numerose le ricerche e gli studi che approfondiscono e definiscono le varie tappe della separazione; la stessa esperienza clinica, nell’ambito della psicoterapia di coppia e degli incontri di mediazione, pone costantemente i professionisti di fronte ad una complessità di aspetti che richiede sempre più una specifica formazione. È pratica ormai consolidata per gli esperti in dinamiche familiari avviare una rielaborazione dei numerosi processi di riorganizzazione intrapsichici e relazionali che si verificano nel corso di una rottura coniugale, in quanto la fine di un matrimonio o di una convivenza implica non soltanto la separazione dal partner, “ma soprattutto una separazione da aspetti della propria storia di vita” (Scabini op. cit., 255). Ad esempio, dopo la rottura coniugale ognuno dei partner dovrà “lavorare per riprendersi la responsabilità e l’iniziativa per la soddisfazione di tutte le aspettative che l’altro aveva accettato di soddisfare e deve elaborare la rottura della reciprocità affettiva costruitasi nell’evolversi della relazione coniugale” (Busso, 2001b, 36).
L’esperienza ci insegna inoltre a saper distinguere il dolore, la sofferenza che i personaggi coinvolti sperimentano a seguito della rottura coniugale, da quello che può essere prodotto da una gestione altamente conflittuale dei momenti successivi la decisione di separarsi. Difatti la separazione provoca sempre e comunque un livello più o meno consapevole e intenso di sofferenza, anche in coloro che si assumono la responsabilità della rottura, che andrà ad incidere nella rete di relazioni in cui ognuno è inserito: “separazione e divorzio sono la conseguenza di una frattura che, come tale, lascia inevitabilmente tracce profonde nella vita di un nucleo familiare” (Scabini op. cit., 255). Le ricerche longitudinali circa gli effetti della separazione ci consentono comunque di dire che le conseguenze più distruttive e negative sono in realtà il risultato della cattiva gestione, da parte dei genitori e/o delle famiglie d’origine, delle fasi successive alla separazione stessa che si realizza in particolare attraverso la guerra per il possesso dei figli. Da segnalare, in proposito, gli studi condotti da Emery (1994) il quale, ad esempio, sottolinea che “lo stato di tensione indotto dall’assistere a manifestazioni di rabbia e di ostilità è forse la conseguenza più grave che il conflitto tra i genitori ha per i figli” (pag. 250).
Il passaggio da una separazione sì dolorosa, ma matura e responsabile, ad una separazione carica di rancore, aggressività e aggravata da sofferenze che a volte producono veri e propri sintomi psichici e fisici è strettamente collegato alla realizzazione o meno, da parte degli ex-coniugi, di quell’operazione complessa che la Scabini definisce “il compito chiave”, ovvero “realizzare il cosiddetto divorzio psichico, che implica principalmente l’elaborazione e la comprensione del fallimento del legame. Obiettivo di questo lavoro psichico è definire in maniera non ambigua i confini del proprio legame, mantenendo un equilibrio di distanze che non ecceda nei due estremi dell’attaccamento confusivo o dell’esasperato conflitto (Iafrate, 1994)” (Scabini, op. cit., 257).
Sono esattamente queste ultime alcune delle caratteristiche che più frequentemente si ha modo di osservare in quelle coppie che non riescono ad accedere al “divorzio psichico” (Bohanan, 1970). Sono coppie caratterizzate da una qualità del legame che, sin dal suo esordio, si distingue per l’incapacità da parte dei partner di rielaborare le iniziali aspettative di cambiamento proiettate durante la fase dell’innamoramento nell’altro. La loro vita di relazione è stata contraddistinta nel corso degli anni soprattutto da sentimenti di delusione: l’altro non solo non è stato capace di aiutare il partner a modificare alcune delle sue caratteristiche, ma non è stato neppure in grado di cambiare qualcosa di sé. A questo punto la soluzione è: o continuare a sperare che l’altro cambi, o eliminarlo.
Sono coppie caratterizzate da un’alta conflittualità e l’obiettivo è farsi reciprocamente la guerra, per definire vinti e vincitori. È proprio a queste dinamiche relazionali che fa riferimento Cigoli (1988) quando parla di legame disperante, che unisce due ex coniugi che non smettono di sperare in un cambiamento dell’altro, e di famiglie scismatiche, laddove il conflitto è centrato sul possesso totale ed esclusivo dei figli da parte di un solo genitore il quale, al fine di eliminare l’altro e l’altra stirpe dalla vita dei figli, non permette alcun accesso ad accordi relativi alla condivisione della genitorialità.
Non riescono ad utilizzare positivamente lo strumento della mediazione familiare e vengono pertanto definite non mediabili (Mattucci, Pappalardo, 2001): coppie che procedono nel conflitto per anni senza trovare mai soluzione alle proprie difficoltà e senza mai fare ricorso con successo all’aiuto di un professionista della psiche; coppie che tendono ad escludere un genitore, favorendo così l’instaurarsi della cosiddetta sindrome di alienazione genitoriale (Gardner, 1989; Clawar & Rivlin, 1992; Buzzi, 1997); coppie nelle quali il conflitto ha determinato il disinteresse pressoché totale da parte di uno dei due genitori nei confronti dei figli o ha addirittura fatto sì che un genitore rinunciasse sin dall’esordio alla propria funzione genitoriale, non riconoscendo il nuovo nato come proprio figlio-discendente.
Nonostante le perplessità di alcuni mediatori, l’esperienza maturata in questi anni presso l’ITFV ed altri Centri facenti parte dell’A.I.M.S. ha mostrato che inserire in un percorso di mediazione coppie siffatte non solo può rischiare di non produrre risultati positivi, ma può addirittura risultare dannoso, in quanto, in seguito al fallimento del tentativo di mediazione, i due genitori finiscono per sentirsi rinforzati nel loro senso di impotenza e nell’idea della ineluttabilità del conflitto in cui sono invischiati. Inevitabile per loro pensare che nessuno li possa aiutare e finire così per avvilupparsi in modo sempre più confuso intorno a situazioni di contrapposizione, a partire il più delle volte da elementi banali di contrasto.
In questi casi, come già descritto nel citato articolo (Mattucci, Pappalardo, 2001), le coppie finiscono per delegare, come estrema possibilità, alsistema Giustizia la soluzione delle proprie difficoltà.
Separazione coniugale e tutela della genitorialità
Come già anticipato, il difficile compito a cui sono chiamate le coppie che si separano è quello di portare in salvo la genitorialità al di là del conflitto e della rottura coniugale. La mediazione familiare nasce difatti come un intervento che ha, tra le altre, la finalità di proteggere l’esercizio genitoriale; l’obiettivo è cioè quello di consentire ai figli di avere una continuità di relazione con coloro che svolgono le funzioni genitoriali e, attraverso essi, di conservare una relazione significativa con le famiglie d’origine.
Va da sé che ciò che deve realizzarsi alla fine di un matrimonio è “un equilibrio di distanza tra ex coniugi e un equilibrio di funzioni tra l’essere ex coniugi e l’essere ancora genitori” (Iafrate e Lanz, 1995). Come ho già sottolineato, ma vale la pena ricordarlo, a provocare effetti negativi sui figli è soprattutto “il conflitto esistente tra i genitori nel suo sviluppo prima, durante e dopo la separazione, piuttosto che la separazione in sé” (Santi, 1980).
Del resto a nessuno sfugge quanto l’elaborazione della rottura coniugale sia un processo estremamente doloroso, difficile e complesso, come pure che “solo se ciascuno dei partner giunge ad accettare la propria parte di responsabilità nell’aver contribuito al fallimento del matrimonio (…) la crisi potrà infatti dirsi affrontata e superata” (Cigoli, Galimberti e Mombelli, 1988; Cigoli, 1991) e, di conseguenza, madre e padre potranno dedicarsi serenamente alla crescita dei figli, senza tralasciare di occuparsi anche del percorso evolutivo personale. Una mediazione, difatti, potrà considerarsi riuscita se gli accordi saranno vantaggiosi e proficui sia per i figli che per i due genitori.
Dopo la separazione vi è un periodo, dai più individuato nell’arco di due anni, durante il quale vengono operate scelte che a tratti amplificano e incrementano il conflitto e a tratti vanno verso un riavvicinamento, il più delle volte confusivo, tra i due genitori. Questa serie di passaggi fa sì che nell’arco di questo periodo i figli, quasi costantemente, si trovino a vivere dei momenti di particolare disagio, in parte legato come già segnalato al conflitto, ma per altri versi frutto della confusione che a loro volta i genitori immettono nella loro relazione in quanto ex coniugi. Difatti, non sapendo come far transitare la genitorialità oltre la coniugalità, rischiano spesso di assumere decisioni che, sebbene razionalmente abbiano l’obiettivo di fare il bene dei figli ed in particolare di aiutarli a soffrire meno, in realtà risultano modalità per ridurre la loro stessa sofferenza, sulla scia dello sforzo di contenere gli effetti dolorosi provocati dalla rottura del legame.
La mediazione familiare non ha certo il compito di aiutare la famiglia ad elaborare il proprio dolore, essendo questo un compito che attiene più propriamente ad un approccio psicoterapico, ma favorisce tale elaborazione attraverso il recupero di una serenità nell’affrontare scelte e decisioni fondamentali per la crescita armonica dei figli.
Riemerge così la centralità sia della continuità genitoriale che della sopravvivenza del legame con la propria storia familiare e personale; questo aspetto sembra però “un po’ messo da parte in alcuni modelli di mediazione familiare, come se di fronte alla necessità di trovare accordi magicamente le persone fossero già riuscite a operare una distinzione tra gli aspetti legati alla coppia e quelli legati al loro essere genitori. Invece è chiaro che se la relazione con la propria storia non è sufficientemente rielaborata nella separazione, gli accordi presi durante la mediazione familiare possono avere vita molto breve” (de Bernart, Francini, Mazzei, Pappalardo, 1999).
Nel corso della disputa, spostata dalla dimensione coniugale su quella genitoriale, una delle questioni che assumono particolare rilevanza è quella della lotta per il possesso dei figli: ottenerne l’affidamento esclusivo, in alcune circostanze, significa sottolineare la vittoria sull’altro, come se l’affido congiunto avesse a che fare non tanto con un impegno condiviso e compartecipe di crescere i figli, bensì con l’idea che ciò che si finisce per condividere siano le responsabilità, le “colpe” del fallimento. Nella mente di coloro che si trovano implicati in un processo di separazione chi ha prodotto la rottura, o ha creato le condizioni perché sopraggiungesse, deve infatti pagarne il prezzo: si chiede pertanto alla Giustizia che, definendo vittime e colpevoli, stabilisca anche assoluzioni e condanne. Il possesso dei figli per alcuni diventa così ciò che, sancendo il risarcimento per il danno subito, sottolinea soprattutto da che parte stanno le colpe.
Ciò che in questi casi dovrà accadere è che il genitore affidatario favorisca e non ostacoli la relazione tra i figli e l’altro genitore e che il genitore non affidatario sappia tollerare il dolore che si determina a seguito dell’eventuale rifiuto dei figli. Compito della mediazione familiare è evitare che gli ex coniugi rimangano bloccati a questo livello di contesa e di guerra e questo potrà avvenire nella misura in cui un aiuto alla funzione genitoriale favorirà “il rispetto dell’altro come genitore, nonostante la frattura coniugale” (Scabini, 1995, 262).
La mediazione familiare sistemica, per realizzare tale compito, si pone anche l’obiettivo di favorire il mantenimento dei confini genitoriali che, nella disputa tra ex coniugi, coinvolge in modo diretto anche le famiglie d’origine. Difatti, nelle situazioni di pesante conflittualità tra due genitori si possono verificare delle circostanze nelle quali è la famiglia d’origine a divenire “il vero sostituto del partner per il genitore affidatario e non affidatario, sicché sono i nonni a esercitare la funzione coparentale, venendo chiamati in causa nell’accudimento dei figli anche quando vengono contemporaneamente sentiti responsabili delle incomprensioni tra i coniugi e del fallimento del loro rapporto” (Malagoli Togliatti e Ardone, 1992, 220).
Una ridefinizione dei confini generazionali ha tre finalità:
1. evitare nei figli non solo una confusione di ruoli e di funzioni durante il loro percorso di crescita, ma anche il rischio di una possibile totale esclusione di uno dei due genitori o comunque la sua costante squalifica.
2. Favorire nei genitori l’elaborazione della propria crescita rispetto alle famiglie d’origine, perché solo questo passaggio potrà permettere un’adeguata assunzione di compiti genitoriali e, nel contempo, una possibilità di rilanciare la propria vita affettiva.
3. Permettere ai nonni di godere della loro posizione di non coinvolgimento diretto nelle responsabilità relative alla crescita dei nipoti. Un eccessivo coinvolgimento in tali funzioni determinerebbe, infatti, uno spostamento verso preoccupazioni, timori e ansie che farebbero venire meno quelle occasioni di gioco spontaneo e quelle relazioni serene e rilassate delle quali hanno così tanto bisogno sia i minori che i nonni in una fase così delicata della vita familiare.
Nel corso degli incontri di mediazione il professionista potrà, a sua scelta, coinvolgere in una o più occasioni i figli stessi, sia per dare accoglienza alla loro sofferenza, sia per conoscere quale comunicazione è stata loro data circa la separazione, e tutto ciò aiuterà i genitori a comprendere l’importanza decisiva del raggiungimento di un accordo ai fini educativi. Nel caso si tratti di bambini, uno strumento particolarmente utile è quello del disegno congiunto, di cui si parlerà in seguito.
Il mediatore, per ottenere gli scopi sopra citati, dovrà fare in modo che i genitori prendano consapevolezza delle proprie capacità, delle proprie risorse e delle modalità per superare gli eventuali momenti di impasse e di conflitto. Il mediatore non dovrà però fornire soluzioni preconfezionate, ma dovrà, maieuticamente, far emergere e far sviluppare, facendo leva sull’amore che i genitori comunque e sempre sentono verso i loro figli, la capacità di ognuno di assumersi fino in fondo le responsabilità che gli competono in quanto genitore e che sono state attenuate dalla sofferenza legata alla separazione.
Se i genitori, al termine del percorso di mediazione, avranno appreso come usare quelle stesse differenze che in passato avevano generato una serie infinita di conflitti come meccanismo propulsore per effettuare le scelte più idonee alla crescita dei figli, saranno successivamente in grado di trovare altri accordi senza il ricorso ad un aiuto esterno. Pertanto, il passaggio da effettuare è quello che va da un percepire le differenze come fonte di chiusura, di contrasto, di rifiuto, ad un accoglierle come lo strumento più idoneo per affrontare il compito più difficile che ogni individuo si trova a sostenere nella propria vita, che è quello di permettere una crescita dei figli come soggetti altro da sé.
Questo obiettivo nel corso della mediazione viene realizzato attraverso varie tappe, ma il nucleo centrale è rappresentato dal percorso effettuato per raggiungere gli accordi conclusivi attraverso una riflessione attenta, minuziosa, puntuale su tutti i problemi possibili, così da cogliere le sfumature, i dettagli e soprattutto il rapporto tra affinità e differenze delle varie posizioni. Tutto ciò perché la riflessione su ogni minimo aspetto che riguardi la separazione e la gestione dei figli e dei beni consente un’apertura mentale a persone che, a causa del profondo dolore, si sono rinchiuse in meccanismi rigidi, stereotipati e automatici. La stesura degli accordi è così un’occasione per recuperare fiducia nelle proprie capacità e risorse e per percepire che vi è uno spazio interiore per far emergere il dolore senza che questo distrugga, in modo invasivo, tutte le altre aree di vita.
Molte volte si incontrano genitori separati che riferiscono di non potersi permettere di dare sfogo alla propria sofferenza per il timore di far soffrire figli e familiari, senza comprendere che è proprio questo meccanismo che in realtà finisce per preoccupare ancor più le persone vicine. Sperimentare invece la possibilità di riappropriarsi del proprio personale disagio senza venire meno alle responsabilità genitoriali è, appunto, una importante iniezione di fiducia verso se stessi e verso l’altro genitore.
La firma di accordi ottenuti con una forzatura o come frutto del desiderio di chiudere al più presto la vicenda per non incontrare più l’altro hanno vita breve, in quanto non scaturiscono da una laboriosa, e pertanto faticosa, elaborazione a più riprese di tutte le questioni riguardanti la partecipazione condivisa alla crescita dei figli.
Durante una lezione di un corso di mediazione familiare sistemica, un’allieva si interrogava sul motivo per cui occorrono 10-12 incontri con i genitori per arrivare a stipulare gli accordi finali di una mediazione, visto che i punti da trattare in fin dei conti non sono poi così tanti. La risposta sta proprio nella necessità di favorire una costante riflessione sui vari argomenti, riflessione che a sua volta, attivando altri e a volte nuovi pensieri e nuove soluzioni, consente a padre e madre di acquisire e di far proprio uno “strumento” utile per giungere a confrontarsi prima e a decidere poi.
Nella mia esperienza i figli, quando sono stati coinvolti, e ciò non è accaduto costantemente, hanno sempre vissuto l’interazione con i genitori e con il mediatore in modo liberatorio, nel senso che si sono sentiti “sollevati” dal peso di essere loro a dover intervenire nella relazione conflittuale tra i genitori e, soprattutto, hanno percepito che il loro dolore non aveva più bisogno di essere “gridato” in quanto i genitori apparivano nuovamente in grado di ascoltarlo, avendo liberato il proprio “udito” dalleurla del contendere.
Le tecniche di mediazione
Non mi soffermerò sulle varie tecniche utilizzabili nel corso degli incontri di mediazione, sia perché occuperebbero uno spazio eccessivo, sia perché ampiamente e puntualmente descritte in numerosi testi tra i quali segnalo quelli di Haynes e Buzzi (1996), di Emery (1994) e di Mazzei (2002).
Vorrei però brevemente soffermarmi su una tecnica molto efficace nel lavoro in presenza dei figli denominata “disegno congiunto della famiglia”, messa a punto da Cigoli, Galimberti e Mombelli (1988) per le consulenze in ambito peritale. È però una tecnica utilizzabile in vari contesti (quello peritale, durante una mediazione familiare, nel corso di una psicoterapia focale, altrimenti definita di divorzio, nel corso di una psicoterapia di coppia, allorché si intravede l’opportunità e l’utilità di far intervenire i figli durante una o al massimo due sedute del processo terapeutico), apportando idonee variazioni a seconda dell’obiettivo che ci si propone.
Si tratta di un incontro che prevede la contemporanea presenza dei due genitori e di tutti i figli e la consegna viene così data “oggi vi chiediamo di fare un disegno assieme, di rappresentarvi come genitori e figli come siete ora, mentre state facendo qualcosa. Ognuno di voi può disegnare se stesso o gli altri, come preferisce. Potete disegnare le persone in qualsiasi posizione del foglio. Adesso ognuno di voi prende un pennarello per disegnare e tiene lo stesso colore fino alla fine del disegno (1988, 57)”.
La possibilità di “mettere l’uno accanto all’altro i membri finora in conflitto ha di per sé un significato, in quanto rende possibile, seppure con un artificio, la coesistenza di punti di vista diversi, cosa che di solito è temuta e contemporaneamente desiderata dai figli” (Mazzei, 2002, 97). È una prova particolarmente efficace in quelle situazioni di conflitto nelle quali i genitori hanno cullato l’idea, o forse la speranza, che le tensioni genitoriali non abbiano avuto ripercussioni sui figli che, a loro dire, neppure sarebbero a conoscenza dei problemi legati alla separazione. È strabiliante osservare nel corso dell’incontro la reazione di sorpresa dei genitori, a volte anche di uno solo, nel registrare che i figli, indipendentemente dall’età, hanno una conoscenza di ciò che è accaduto, o sta accadendo, di gran lunga maggiore alle aspettative degli adulti. I genitori, a questo punto, spesso realizzano un netto viraggio rispetto alle posizioni iniziali, divenendo più capaci di accettare le richieste e le osservazioni l’uno dell’altro, addivenendo così ad accordi prima più difficilmente ottenibili.
Il comportamento dei bambini durante il disegno congiunto è improntato, nella quasi totalità delle situazioni, ad una partecipazione molto attiva e soprattutto giocosa, che permette loro di interagire con entrambi i genitori liberamente e spontaneamente. Non a caso nella fase di discussione del lavoro prodotto, ma a volte mentre stanno ancora disegnando, si sentono liberi di fare domande ai genitori, di parlarsi tra loro, di interagire con il professionista e anche di sottolineare i disagi e le difficoltà che vivono, nonché di esprimere aspettative e speranze circa la situazione di conflitto tra i genitori. Il mediatore potrà in questa fase favorire l’interazione ponendo alcune domande e assumendo una funzione di contenimento dell’intero sistema, rassicurando in tal modo i bambini circa l’affidabilità del contesto in cui si trovano.
L’utilizzo del disegno congiunto si diversifica non solo in base al contesto di applicazione, ma anche a seconda delle scelte tecniche del professionista che lo utilizza. Personalmente ritengo che debba essere somministrato in un unico incontro, o al massimo due, nel corso del quale i partecipanti effettuano il disegno e lo commentano. Il ruolo del mediatore “è limitato alla guida dei genitori nella formulazione di ipotesi che successivamente potranno supportare le loro scelte” (Mazzei, 2002, 98). Difatti, “nella mediazione l’interesse è concentrato sulla produzione di un materiale familiare, che serve al sottosistema genitoriale per interrogarsi sui bisognie sulle esigenze dei figli” (ibidem).
Conclusioni
La mediazione familiare sistemica è un intervento che partendo dal conflitto coniugale si rivolge al futuro genitoriale, cercando così contemporaneamente di favorire aspetti separativi, che attengono alla coniugalità, e di promuovere elementi di unione, che attengono alla genitorialità.
Nel dibattito tra coloro che ritengono che il processo di mediazione debba guardare solo al futuro e mai al passato e coloro che invece sostengono l’importanza di comprendere le famiglie partendo dalla conoscenza della loro storia, si inserisce l’efficace immagine metaforica proposta da “Aldo Morrone, maestro carismatico di quasi tutti i mediatori del mondo, che parla della mediazione come di un’automobile dalla quale si deve guardare avanti attraverso il parabrezza, ma senza dimenticare di dare spesso un’occhiata agli specchietti retrovisori” (de Bernart, 2002).
In definitiva la mediazione familiare può “assumere il significato di un intervento che non solo tende a ridurre gli aspetti cruenti del conflitto in vista degli accordi di separazione, ma prova a sostenere la famiglia in questa fase così dolorosa e nello stesso tempo cruciale per il benessere psicologico dei figli, innescando, laddove sia possibile, occasioni di elaborazione della perdita e cura del legami” (Mazzei, 2002, XVI).
Ciò che si va in definitiva a trattare è la sopravvivenza del legame “si tratta cioè di riconoscere l’esistenza di aspetti positivi e si tratta di tener viva la fiducia nel legame e in se stessi come degni del legame. Come dire, se quel legame è fallito, è valsa la pena di viverlo e vale la pena nella vita dare cura ed energia ai legami” (Scabini, Cigoli, 2000, 203).
In questa frase è del resto racchiuso uno dei mandati che ogni generazione che ha conosciuto la separazione deve preoccuparsi di passare a quella successiva: i figli hanno il diritto di potersi sperimentare in relazioni affettive partendosì dal disagio per aver vissuto direttamente gli effetti di una rottura,ma anche e soprattutto dalla fiducia che tale rottura non segni il fallimentodi qualsiasi possibilità di costruire un legame che sia positivo, solidoe affidabile.
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