14 apr 2007

SULLE TRACCE DEL PELO DELL'ORSO DELLA LUNA CRESCENTE


Pasquale Busso

Socio fondatore A.I.M.S. Direttore Centro Studi Eteropoiesi di Torino Past President A.I.M.S. eteropoiesi@eteropoiesi.it

“C’era una volta una giovane che viveva in un profumato bosco di pini. Il marito era lontano, a combattere una lunga guerra. Quando fu congedato, tornò a casa, ma si rifiutò di entrarvi perché era abituato a dormire sulle pietre. Stava giorno e notte per conto suo, nel bosco.
La giovane moglie era tanto eccitata quando le dissero che finalmente il marito sarebbe tornato a casa, che prese a comprare cibi e a cucinare piatti e piatti e ciotole e ciotole di giuncata di soia e tre tipi di pesce e tre tipi di alghe e riso cosparso di pepe rosso e dei bei gamberi, grossi e color arancio.
Sorridendo timidamente, portò i cibi nel bosco e s’inginocchiò accanto al marito tanto stanco dalla guerra, e gli offrì le stupende pietanze che aveva preparato. Ma lui saltò in piedi e diede un calcio ai vassoi, sicché la giuncata si sparse per terra, il pesce volò per aria, le alghe e il riso si sparpagliarono ovunque e i grossi gamberi arancione rotolarono lungo il sentiero.
‘Lasciami stare!’ urlò e le voltò le spalle. Era tanto in collera che lei ne ebbe quasi paura. Alla fine, disperata, riuscì a raggiungere la caverna della guaritrice che viveva lontano dal villaggio.
‘Mio marito è tornato gravemente turbato dalla guerra’, disse la moglie. ‘S’infuria continuamente e non mangia nulla. Vuole restare all’aperto, non vuole più vivere con me come un tempo. Puoi darmi una pozione per renderlo di nuovo gentile e affettuoso?’
La guaritrice la rassicurò: ‘Posso fare questo per te, ma mi occorre uno speciale ingrediente. Purtroppo ho esaurito i peli dell’orso della luna crescente. Devi dunque arrampicarti su per la montagna, trovare l’orso nero e portarmi un pelo della luna crescente che ha sulla gola. Allora potrò darti quello che ti occorre, e la vita tornerà ad essere bella’.” (Pinkola Estés, 1993, p. 340).
Il quadro relazionale di coppia, che la favola introduce, richiama la struttura delle narrazioni che mediatori relazionali, counsellor o psicoterapeuti registrano alla base di una richiesta di aiuto. In una situazione conflittuale chi chiede aiuto costruisce la sua narrazione su di una trama, che esalta all’estremo la contrapposizione del protagonista con l’antagonista. Il primo, da un lato, viene descritto come propositivo di iniziative encomiabili: tutto il suo agire è animato dalle migliori intenzioni. Nel caso della favola cinese, la donna è la persona fedele, che ha atteso l’amato per lunghi anni e si profonde in una serie di gesti amorevoli per rendergli gradevole il ritorno. Dall’altro l’antagonista appare come la causa dei guai, l’aggressore del protagonista. Difficile empatizzare con un uomo che tratta in così malo modo sua moglie senza neppure uno straccio di provocazione. Ciò che emerge in primo piano è la stranezza, l’illogicità, l’incomprensibilità del suo comportamento. Ancor più evidente questo risulta nella favola del lupo e dell’agnello, dove sono messi in primo piano la sequenza in crescendo dei pretesti a cui un aggressore può ricorrere per giustificare la propria scelta di aggressione.
Ci si trova in una visione del mondo esattamente agli antipodi della cultura in cui matura la massima cinese dove si afferma che la vittima è responsabile della sua morte. Più o meno consapevolmente chi chiede aiuto sceglie di dare risalto al comportamento dell’altro attraverso l’accentuazione delle differenze riscontrate fino a considerarle come inconciliabili. Comportamento del marito e comportamento della moglie vengono considerate nell’aspetto che li distanzia, che li contrappone, tralasciando di investigare la complementarietà che lega gli opposti (Ugazio, 1998). Esaltando la prospettiva della separazione, si perde di vista come entrambi i contendenti siano responsabili dei risultati negativi derivanti dal conflitto.
Compiendo questa scelta, chi chiede aiuto evita di lasciarsi guidare dalla curiosità di conoscere direttamente dall’interessato che cosa lo muova, quale messaggio gli voglia far pervenire, che cosa desideri ottenere attraverso un comportamento apparentemente incomprensibile o fuori delle regole condivise. Escludendosi più o meno consapevolmente queste opportunità, il narratore non ha gli strumenti necessari per mettere in dubbio la veridicità della propria narrazione. Se soltanto avesse il desiderio e la capacità di mettersi in ascolto dell’altro, si porrebbe nelle condizioni per intendere sia che cosa l’interlocutore prova sia il significato del suo strano comportamento. La signora della favola potrebbe accorgersi (possiamo fare un’ipotesi tra le tante possibili) della sofferenza del marito, correlata all’impasse di non trovare parole per descrivere la contraddizione, sperimentata al suo ritorno, tra l’affetto, che lo lega a lei sua sposa e l’esigenza, maturata lontano da lei, di cambiare i ruoli tradizionali, che regolano i rapporti tra uomo e donna. Ovviamente anche il marito non si consente di essere a sua volta curioso e di empatizzare con la moglie: la conseguenza logica e inevitabile è il trovarsi ‘l’un contro l’altro armati’. E a uno dei due o ad entrambi può venire in mente di chiedere aiuto fuori della coppia per tentare di rimediare ad una situazione divenuta pericolosa ed intollerabile.
Giorgia e Michele si sono sposati tredici anni fa, hanno due figli (10 e 8 anni). Si presentano alla consultazione, dichiarando di avere due obiettivi: innanzi tutto comprendere se stare insieme o separarsi e, in secondo luogo, trovare un buon accordo per gestire bene i loro figli in questo momento di crisi. Michele, figlio unico, è ingegnere e lavora nell’azienda di famiglia. Giorgia, sposandosi, ha lasciato la sua città natale, quindi anche genitori e parenti. Attualmente lavora a metà tempo come impiegata in una ditta non di famiglia.
Entrambi sono d’accordo su una cosa: hanno sposato ‘un’altra persona’. Resta difficile ad entrambi capire le reciproche richieste e reggere la tensione derivante dal sentirsi in trincea con il costante rischio di essere presi a cannonate ogni volta che si fa una proposta di dialogo o anche solo di tregua.
Nella presentazione dei collages (de Bernart, 1987), quale espressione della loro famiglia ideale, entrambi utilizzano materiale fotografico nel quale compaiono soltanto coppie: figli o altre persone sono assenti. Le fotografie di lei sono ritagliate sui contorni delle persone, quelle del marito danno ampio spazio a scenari caraibici, castelli, panorami incantati. Nel commento al lavoro dell’altro, entrambi sottolineano con piacere di costatare come il partner abbia presentato una bella coppia, dove c’è amore, complicità, comprensione e rispetto. Alla domanda sul perché non ci siano figli nel loro ideale di famiglia, la signora risponde di averli esclusi deliberatamente, perché con la loro venuta tutto è cambiato nella loro vita. Michele per contro sottolinea che aveva preso in considerazione uno spot del mulino bianco, ma più per l’atmosfera di coppia che per i figli. Nel suo modello di famiglia i figli sono di competenza della madre.
Diversamente che nella favola, non è la guerra l’occasione che fa scoprire ai coniugi di avere sposato un’altra persona, ma la nascita dei figli. Il risultato tuttavia è identico: l’armonia sognata e sperimentata nei primi tre anni di convivenza va in frantumi e i cocci rivelano aspetti dell’altro scotomizzati durante la fase dell’innamoramento. La narrazione di entrambi armonizza i dati esperienziali intorno alla scelta che gli aspetti sgradevoli del partner, violando l’accordo di coppia, sono la causa della rottura del benessere. Accettato questo pretesto, ogni lamentela, ogni accusa, ogni ritorsione può essere giustificata.
Giorgia: ‘Quando è nato Antonio (il primo figlio), lui non c’era, poiché per motivi di lavoro aveva dovuto intrattenersi per qualche giorno fuori città. Uno dice: ‘pazienza, ricupereremo nelle vacanze che stanno per venire’. Arrivano le vacanze e lui ti organizza una rimpatriata di tutta la famiglia sua insieme con i miei genitori. Ovviamente nella loro villa in Sardegna, perché cosa vai a spendere, quando si hanno tante opportunità a disposizione.’
‘Comunque, mi dico, in tanti … mi daranno una mano. Invece mi trovo non solo a dar da poppare e a cambiare pannolini per tutta l’estate, ma anche a fare da mangiare a tutta la tribù. Certo vi è anche la donna di servizio, per carità. Ma lui che fa? Una vacanza piena di impegni: il mattino presto una corsa in spiaggia, poi la vela, poi di pomeriggio il golf e la sera con gli amici a parlare di affari e di politica. Per noi il tempo dei pasti insieme con tutti e la notte lui a dormire e io a dare le poppate intanto che lui russava, stanco.’
Michele: ‘In quel periodo eravamo in un momento difficile per il lavoro. Non potevo concedermi un attimo di distrazione. I figli sono arrivati nel momento peggiore. Mi sono impegnato al massimo a fare la mia parte, contando che lei avrebbe fatto altrettanto. Se nelle vacanze non mi fossi riposato, non avrei retto. Comunque è andata male lo stesso’.
Chiunque si ponga in ascolto di narrazioni come questa viene orientato a condividere la strategia del narratore, e quindi guidato a diventare un suo alleato. Narrazioni come quelle di Michele e di Giorgia si basano principalmente sull’accettazione dei seguenti presupposti:
· l’antagonista non è più come prima, poiché qualcosa l’ha turbato o qualcosa in lui è cambiato;
· quel che è successo non ha a che fare con la relazione tra protagonista e antagonista;
· in armonia con gli impegni reciprocamente assunti, occorre fare qualche cosa per farlo tornare in sé, posto che sia possibile.
La narrazione si struttura in modo da rendere difficile a chi ascolta di fare domande che esulino dai presupposti sopraindicati o anche semplicemente dal chiedere se per caso nel racconto non sia stato omesso qualcosa o qualche cosa non sia stato deformato al di là delle intenzioni. Ovviamente l’orizzonte di senso è ancora più chiuso, quando la presa di coscienza di questa divaricazione diventa il fondamento della scelta della separazione.
Di fronte alla richiesta se abbia comunicato a Michele le sue difficoltà, Giorgia spiega come si sia rivolta a sua suocera, data la grande intesa esistente tra Michele e sua madre. ‘Lui è figlio unico. Mi aspettavo che lei mi desse una mano, invece fu lei a convincermi che era necessario pazientare, poiché Michele era in un momento in cui non poteva essere disturbato. Ho pazientato fin che ho potuto. Ora non ce la faccio più’.
Tre mesi prima Giorgia ha comunicato al marito la sua intenzione di separarsi. Da quel momento il marito ha cambiato comportamento, ma non come Giorgia desiderava. ‘Si è intromesso nella nostra vita. Si interessa in continuazione di noi, telefona ad ogni ora a me e ai miei figli. E’ diventata una persecuzione. Mi toglie il respiro’.
Michele: ‘Ogni tanto Giorgia si lamentava, ma, pensavo, sa … le donne. Poi un giorno se ne viene con una dichiarazione del genere. Mi sono chiesto con chi avevo a che fare. Non la riconoscevo più. Certo da qualche tempo era in lite con mia madre. Tuttavia, che ci posso fare… questo è un suo problema; io con mia madre vado d’accordo.’
L’estrapolazione dei tratti salienti delle loro narrazioni mette in risalto come i rispettivi punti di vista siano esattamente antitetici. Tuttavia ciò che maggiormente interessa il nostro discorso è che nessuno dei due, anche se parla dell’altro, vi presta realmente attenzione. Di fatto ognuno continua a confrontarsi con l’immagine interna del partner, dando ad essa maggior valore di verità dei dati che egli ricava dalle parole dell’interlocutore. Queste non vengono ascoltate, ma sono soltanto lo stimolo per un confronto interno tra la propria identità e l’alter ego rappresentato dal partner. Il fatto di prendere coscienza che l’altro non è più quello di prima non porta necessariamente l’interessato a mettere in discussione l’idea, che se ne era fatta in passato. Come una mosca che si affanna contro un vetro invisibile, ognuno dei contendenti si ostina a salvare la propria narrazione poiché, in queste strutture narrative, tra le due funzioni naturali del linguaggio, autoreferenzialità e oggettivazione (Ricoeur, 1990), alla seconda viene attribuito valore di cornice. Con tale operazione si viene a colorare di oggettività anche operazioni soggettive, quali la selezione e l’armonizzazione dei dati (Jaynes, 1976), che danno senso all’esperienza, organizzandola intorno ad una identità e ai suoi interlocutori di riferimento.
La prosecuzione del racconto della favola cinese offre, a mio avviso, alcuni spunti non soltanto alla psicoterapia (il setting più affine), ma anche alla mediazione. La guaritrice non si occupa in concreto di guarire il marito, pur accettando a parole di muoversi in quella direzione. Propone alla moglie un rimedio che necessita di un ingrediente, il pelo dell’orso della luna crescente, senza il quale non è possibile preparare ciò che occorre alla signora per far rinsavire il marito. Sta alla signora muoversi per procurarlo. Quando la signora torna: “Bene, disse la guaritrice con un sorriso. Guardò attentamente la donna e prese il pelo bianco e lo guardò alla luce. Soppesò il lungo pelo in una mano, lo misurò col dito, ed esclamò: ‘Sì! E’ un autentico pelo dell’orso della luna crescente’. Poi d’improvviso si volse e gettò il pelo nel fuoco, dove scoppiettò e bruciò in una splendente fiamma arancione.
‘No!’ urlò la donna. ‘Che cosa hai fatto?’
‘Calmati. Va bene così. E’ tutto a posto’, disse la guaritrice. ‘Ti ricordi tutto quello che hai fatto per scalare la montagna? Ricordi tutto quello che hai fatto per conquistare la fiducia dell’orso della luna crescente? Ricordi quello che hai visto, quel che hai udito, quel che hai sentito?’
‘Sì’, rispose la donna, ‘lo ricordo benissimo.’
La vecchia guaritrice le sorrise dolcemente e disse: ‘Ora, per favore, figlia mia, torna a casa con queste nuove conoscenze e comportati nello stesso modo con tuo marito’ (Pinkola Estés, 1993, p. 343).
La richiesta di andarsi a procurare il pelo dell’orso della luna crescente simbolicamente può essere interpretata come un percorso che porta la protagonista a recuperare un rapporto positivo con aspetti di sé da sempre evitati o negati e tuttavia prepotentemente richiamati dal comportamento del marito. In quest’ottica uno dei messaggi che possiamo trarre dalla favola è che non si può far evolvere un conflitto se non si creano nuovi rapporti proprio con quelle aree esperienziali contraddittorie, da cui il conflitto è scaturito. Pur tenendo conto della differenza tra il setting della mediazione e quello della guaritrice, non credo che si possa trascurare la proposta di saggezza che emana da questo racconto. La mediazione non ha come obiettivo l’apprendimento di un’abilità personale che permetta al cliente di affrontare positivamente la sfida evolutiva della contraddizione e della contrapposizione, ovvero di cogliere ciò che unisce gli opposti e di promuovere strategie armoniche a questa percezione della conflittualità. Obiettivo della mediazione resta principalmente il raggiungimento pragmatico di un accordo. Tuttavia non è sfuggito a molti mediatori (Bassoli, Mariotti, Frison (1999), Busso (2001), Emery (1998), Mazzei (2002), Morineau (2000)) la necessità di proporre modelli di mediazione, in cui il livello simbolico dell’esperienza sia parte integrante del processo negoziale.
Proprio perché la mediazione non sia un vuoto rituale, è necessario che durante il percorso negoziale venga testata la capacità dei protagonisti di porsi in un atteggiamento di ascolto di quelle parti dell’interlocutore, che altrimenti lavorerebbero per rendere formale e inefficace l’accordo raggiunto. E nella mediazione famigliare soprattutto quando le problematiche di coppia tendono a scaricarsi sul piano genitoriale.
In un precedente lavoro ho presentato il percorso di mediazione di riparazione (Busso, 2001), che, sulla scia della proposta di Morineau, porta vittima e aggressore a incontrarsi come soggetti attraverso l’attenzione al dolore dell’altro. Di fatto, muove vittima e aggressore a mutare il modello relazionale di contrapposizione, che ha portato allo scontro, in un rapporto di rispetto e di curiosità, dove l’altro assurge alla dignità di interlocutore. Il lavoro di mediazione con coppie invischiate in un legame disperante mi ha portato a considerare come parte integrante della mediazione relazionale, anche nei casi di separazione, il mettersi in contatto proprio con quelle parti negative intorno alle quali si è strutturato il conflitto, cronicizzandolo. Non si tratta di lavorare su queste esperienze come si opera in psicoterapia. Si tratta semplicemente di guidare i protagonisti a prendere contatto con ciò che hanno sempre rifiutato. La presa di coscienza del ‘buco nero’ dell’altro, e di ciò che comporta come scelta personale l’affacciarsi alle soglie di quel vuoto angosciante, muove spesso entrambi verso una decisione, che pone termine alla snervante oscillazione tra l’andarsene e il restare. Se questo avviene, entrambi i protagonisti si trovano nella condizione della donna della favola. Possono mediare come soggetti in sufficiente autonomia.
Con un esempio cercherò di illustrare quanto ho sinteticamente esposto. Giovanna ha 41 anni, sposata, madre di due figlie, si presenta con il marito per una consultazione: devono sapere se continuare a rimanere insieme o separarsi. Nell’estate precedente alla consultazione, durante le ferie, Giovanna comunica al marito l’intenzione di separarsi, poiché non si sente più innamorata di lui. Decidono comunque di finire le ferie senza comunicare nulla alle figlie o ai parenti, poiché Alberto chiede un po’ di tempo per pensarci. Terminate le ferie, non tornano sull’argomento fino a prima del Natale, quando Alberto comunica di essere stanco di questa situazione e di desiderare la separazione a cominciare da dopo le feste natalizie. Giovanna reagisce negativamente a questa proposta. Afferma di non sentirsi pronta per questo passo. Maturano quindi la decisione di venire in mediazione. Decisione presa in accordo con i rispettivi psicoterapeuti.
Non ritengo essenziale presentare tutta la storia coniugale di Giovanna e Alberto. Ne presenterò solo alcuni stralci, utili per la comprensione del processo che porta Giovanna e Alberto a decidere.
“Mi rendo conto che la comparsa di Alberto nella mia vita famigliare … Ho l’impressione che, da un lato ci sia la mia vita famigliare e poi, ogni tanto, Alberto compare sulla scena e questo è sempre molto conturbante, un brutto impatto. Per usare una metafora o una fiaba, come se ci fosse una bella storia, in cui noi facevamo le nostre cose e poi, ad un certo punto arriva l’orco… E da quel momento io divento sempre più irrilevante, come se da quel momento io non avessi più i miei spazi, non la comunicazione con i miei figli, non più le mie cose. ”
“Come ci si sta in situazioni simili, senza i propri spazi …?”
“Si sta male … nel ricordo di ciò che si aveva e ora non si ha più. Si sta male … Diciamo che c’è un sentimento di paura e un sentimento anche di rabbia, determinato dal fatto di sentire che si ha paura.”
“E’ come se in questo momento lei dicesse ad Alberto: ‘Ho paura di te e perciò anche rabbia’”.
“Sì, è così…”
“Lei avrebbe desiderio che Alberto si accostasse a questi suoi sentimenti di paura e di rabbia?”
“Sì, mi piacerebbe…, ma…”
“Alberto ha fatto qualche tentativo per accostarsi?”
“Alberto ne ha fatto uno proprio questa mattina…” La signora racconta come si sia trovata in difficoltà nel mandare a scuola la figlia minore, che da tempo fa sempre storie. Lei avrebbe desiderato un aiuto e un confronto. Tuttavia il modo con cui Alberto si è proposto è proprio quello che da sempre la fa imbestialire.
Ad entrambi viene richiesto se l’episodio della mattina può essere un esempio emblematico della loro relazione. Entrambi concordano che lo è e che può essere utile ripercorrerlo alla moviola per concedersi l’occasione di conoscere ciò che sta dietro alla facciata di ostilità.
“Avrebbe desiderio di conoscere ciò che muove Alberto per mostrarsi così diverso da come lei si aspetta?”
“Lo so da sempre, è un egoista, che pensa solo a se stesso”.
E’ una risposta scontata, che risponde allo stereotipo di Alberto interiorizzato da Giovanna. Perché i due possano mediare debbono trovare un modo autentico per dialogare. Nel caso contrario si rischia di far dialogare gli stereotipi dei partner con il risultato certo di un puro accordo di facciata. Se guidate, le persone hanno la possibilità di accedere a risorse che mutano in positivo il percorso di mediazione.
“Non mi risponda a memoria. Ha notato come si è emozionato Alberto mentre lei parlava? Lo guardi. Che cosa c’è dietro quegli occhi umidi di lacrime?”
“Ad essere sincera non ci avevo badato … tristezza?… rabbia? … non saprei.”
“Si dia il tempo necessario, non abbia fretta…”
Dopo qualche ulteriore divagazione Giovanna ha un sussulto nell’istante in cui incrocia lo sguardo angosciato di Alberto e dice: “Capisco … ho intravisto una realtà che non so se mi va di conoscere. Improvvisamente mi sento mancare la volontà di continuare con lui. Mi angoscia, ma sento che è meglio così”.
“Non abbia fretta di decidere. Registri i dettagli di questa esperienza e lasci che questa lavori per una decisione adeguata.”
Il lavoro con Alberto porta a risultati analoghi: egli prende coscienza che nel suo futuro non c’è spazio per Giovanna. In specifico, nel momento in cui prende coscienza di come possa stare Giovanna di fronte al suo muoversi distaccato e freddo, Alberto rimane visibilmente turbato. Si scuote come per distrarsi.
“Torni da dove è fuggito, non abbia paura. Dedichi qualche tempo a considerare se desidera inoltrarsi, se può essere utile per lei, per la sua evoluzione incontrare quegli aspetti di Giovanna, se sia attraente pensare di sposarli… o no… Metta a memoria ogni dettaglio…”
“Mi è molto chiaro… non l’avevo mai compreso in questo modo...”, sospira profondamente e rimane in silenzio per qualche minuto.
Chiedono un po’ di tempo per pensarci. Dopo un mese circa ritelefonano per iniziare la mediazione.
I passi del percorso sono molto vicini a quelli proposti dalla guaritrice alla donna nel finale della favola. Se ci sono risorse, se ognuno ha fatto la propria strada con la psicoterapia o con altri mezzi, non resta che contestualizzare queste esperienze nel qui ed ora della relazione coniugale.
‘Ti ricordi tutto quello che hai fatto per scalare la montagna?’ Il soggetto va semplicemente guidato a ricuperare ciò che dipende da lui, ciò che a lui viene richiesto per reggere una situazione contraddittoria e faticosa. Nel setting di mediazione è sufficiente aiutare i protagonisti dell’accordo a utilizzare al meglio tutte le risorse presenti nel momento stesso in cui si stabilisce un contatto emotivo ad un livello per molto tempo evitato. Nel caso proposto, quando Giovanna e Alberto incrociano lo sguardo con tutto il carico delle loro emozioni contraddittorie.
‘Ricordi tutto quello che hai fatto per conquistare la fiducia dell’orso della luna crescente?’ Il percorso fatto per prendersi carico delle proprie parti ancora da umanizzare è la risorsa a cui i soggetti possono accedere per non scaricare sul partner scelte non delegabili ad altri. La garanzia più consistente per il rispetto dell’accordo sta nella capacità di ognuno dei partner di gestire le proprie parti emotive, senza lasciarsi invischiare dalle risonanze stimolate dal comportamento dell’altro. “Ho intravisto una realtà che non so se mi va di conoscere. Improvvisamente mi sento mancare la volontà di continuare con lui”. Per un momento il gioco dello scaricabarile si interrompe.
‘Ricordi quello che hai visto, quel che hai udito, quel che hai sentito?’ Il modo per accedere a queste risorse non ha da essere approssimativo e generico, ma preciso e contestuale, ancorato a dati fondati su percezioni sensoriali, quindi sul territorio dell’esperienza, non sulla mappa della descrizione.
Per concludere, mi viene innanzi tutto da ricordare che un modello di mediazione deve precisare il tipo di correlazione tra narrazione ed esperienza e, a livello metodologico, deve esplicitare il percorso attraverso il quale questa correlazione si invera.
In secondo luogo, credo che la mediazione relazionale sia un percorso efficacemente praticabile, quando i soggetti si dimostrano in grado di recuperare la capacità di ascolto dell’altro nella sua diversità, rinunciando a far dipendere il proprio benessere dal comportamento dell’altro. Di fatto la struttura narrativa di entrambi i partner, durante il percorso di mediazione deve andare gradualmente a modificarsi. Protagonista e antagonista, aggressore e vittima devono lasciare il posto a soggetti che si scoprono diversi dalle precedenti aspettative e, attraverso il percorso della mediazione, decidono di trovare forme nuove di organizzazione relazionale in funzione di obiettivi comuni, chiaramente specificati.

Bibliiografia
  • Bassoli F., Mariotti M., Frison R. (1999), Mediazione sistemica, Sapere, Padova.
  • Bateson G. (1972), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.
  • Bateson G. (1979), Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984.
  • Buber M. (1991), Il principio dialogico e altri saggi, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1993.
  • Busso P. (1997), “La sfida ecologica del conflitto. La prospettiva della mediazione sistemica”, Animazione Sociale, 5, pp. 35-39.
  • Busso P. (2000), “Mediazione dei conflitti: percorsi e tecniche”, Animazione Sociale, 10, 2001, pp.25-61.
  • Cigoli V. (1998), Psicologia della separazione e del divorzio, Il Mulino, Bologna.
  • Cigoli V. (1997), Intrecci familiari. Realtà interiore e scenario relazionale, Cortina, Milano.
  • Cigoli V., Galimberti C., Mombelli M. (1988), Il legame disperante, Cortina, Milano.
  • Emery R. (1998), Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, Franco Angeli, Milano.
  • Jaynes J. (1976), Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano, 1984.
  • Mazzei D. (2002), La mediazione familiare. Il modello simbolico trigenerazionale, Cortina, Milano.
  • Morineau J., Lo spirito della mediazione, Angeli, Milano, 2000.
  • Pinkola Estés C. (1992), Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Como, 1993.Ricoeur P. (1990), Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993.
  • Scabini E., Cigoli V. (2000), Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Cortina, Milano.
  • Ugazio, V. (1998), Storie proibite, storie permesse. Polarità semantiche familiari e psicopatologia, Bollati Boringhieri, Torino.

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